Legittimità e conseguenze dei controlli a campione nel rapporto di lavoro

Una recente sentenza del Tribunale di Torino ribalta la tesi di un dipendente licenziato, il quale sosteneva di essere continuamente controllato dai superiori nella sua attività di verifica dei lavori affidati in appalto, con conseguente tardività e infondatezza del suo #licenziamento in tronco (motivato con il pagamento di ingenti somme indebite a favore di alcuni appaltatori e subappaltatori).
All’esito di una prova testimoniale veramente complessa, la sentenza accerta che il dipendente non solo ometteva le dovute verifiche, ma si era addirittura fatto “parte attiva per favorire gli abusi delle imprese contrattualizzate a danno della committente”. La sentenza esclude anche che la società datrice di lavoro avesse conosciuto e accettato il modo in cui il dipendente controllava (o meglio, non controllava) in campo le attività appaltate, essendo risultato che i superiori attuavano sporadici #controlli a #campione, in quanto, per la mole di lavoro e per l’organizzazione interna, necessariamente confidavano nella sua #correttezza e #lealtà. Ed era da uno di questi controlli a campione che erano sorti il sospetto e, quindi, l’indagine interna su tutto l’operato del dipendente. Di qui, il Tribunale di Torino conclude che la fiducia riposta dai superiori nel dipendente non è sinonimo di conoscenza dei comportamenti e, pertanto, non può da questi essere utilizzata “a giustificazione delle proprie gravi mancanze”.
La decisione, quindi, dà concreta applicazione al principio di civiltà giuridica affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 10069 del 2016, secondo cui Il datore di lavoro ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo ed assiduo i propri dipendenti, in quanto un eventuale obbligo di tal genere negherebbe in radice il carattere fiduciario del rapporto di lavoro subordinato