Licenziamento tra tardività generale e tardività contrattuale.

La sentenza della Suprema Corte 23 giugno 2023, n. 18070, afferma due principi: a) il licenziamento intimato in violazione dei termini previsti dai contratti collettivi dà luogo alla mera tutela indennitaria debole prevista dal sesto comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. In tal senso, la Suprema Corte conferma il suo precedente orientamento (cfr., da ultimo, Cass., 21 aprile 2023, n. 10802), il quale sembra fare giustizia del precedente principio di diritto secondo cui i termini previsti dai contratti collettivi sarebbero di vera e propria decadenza ex 2965 Cod. Civ. e, quindi, la loro violazione consumerebbe il potere di recesso del datore di lavoro; b) il licenziamento, invece, intimato in violazione della “nozione generale ed indeterminata di tempestività della contestazione di addebito”, non può essere annullato quando il fatto sia sussistente; tuttavia, in tal caso, il lungo tempo trascorso tra conoscenza dell’infrazione e licenziamento legittima l’applicazione della tutela indennitaria forte di cui al quinto comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Ciò perché la mancanza di tempestività “può indurre il lavoratore a ritenere che il datore di lavoro voglia soprassedere al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la sua colpa”. Tale conclusione potrebbe avere senso se il lavoratore fosse in grado di dimostrare che il datore di lavoro già conosceva ogni dettaglio della sua condotta ed è rimasto inerte per lungo tempo. In tutti gli altri casi e in assenza di una prova del genere, la conclusione finisce per premiare economicamente (sino a 24 mensilità) il lavoratore che, commesso un illecito difficile da accertare all’interno delle grandi aziende, si sia giovato dei tempi di verifiche complesse senza mai pensare, consapevole della gravità del suo comportamento, ad una ipotetica clemenza del datore di lavoro.