Prescrizione durante il rapporto di lavoro

Con la sentenza 10 gennaio 2024, n. 1067, la Suprema Corte conferma l’orientamento espresso dalla sua precedente decisione n. 26246 del 2022 e ribadisce che, con la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori operata nel 2012 dalla Legge Fornero e, soprattutto, con il contratto a tutele crescenti ex D. Lgs. 23 del 2015, i rapporti di lavoro non sono più assistiti dal “regime di stabilità reale” e, pertanto, la prescrizione dei crediti del lavoratore non può decorrere durante il rapporto contrattuale, ma resta sospesa e decorre soltanto dal momento della cessazione di tale rapporto. In altri termini, non essendo più la reintegrazione nel posto di lavoro l’unica sanzione per tutte le ipotesi di illegittimità del licenziamento, il lavoratore è meno garantito e quindi ricorre una situazione di metus che gli impedisce il tempestivo esercizio dei propri diritti. Sembra che la Suprema Corte abbia smarrito i punti di riferimento della vicenda. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 63 del 1966, escluse la decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro perché, in assenza (allora) di qualsiasi tutela contro il licenziamento, il lavoratore “può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento“. La stessa Corte Costituzionale, con la successiva sentenza n. 174 del 1972, ripristinò la precedente disciplina della prescrizione in tutti quei rapporti assistiti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, nel frattempo entrato in vigore. Si noti che, nella formulazione originaria, tale disposizione nulla prevedeva con riguardo al licenziamento ritorsivo e, cioè, al licenziamento intimato dal datore di lavoro per vendicarsi contro il dipendente che ha esercitato un proprio legittimo diritto. Soltanto con la novella del 2012 nell’art. 18 viene prevista, al primo comma, la tutela della reintegrazione nel caso di licenziamento nullo perché “determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile“, al quale la giurisprudenza già da tempo riconduceva il licenziamento ritorsivo. La stessa norma è ora contenuta, per il contratto a tutele crescenti, nell’art. 2 del D. Lgs. n. 23 del 2015. Dunque, sono proprio le norme che secondo la Suprema Corte avrebbero limitato il regime di stabilità reale a tipizzare la nullità del licenziamento ritorsivo e a tutelare con la reintegrazione piena qualsiasi dipendente (anche il dirigente) che intenda esercitare i propri diritti nei confronti del datore di lavoro. Il che rende irrazionale la sospensione della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro. Ai fini della prescrizione, non rileva il fatto che, oggi, la reintegrazione non è più l’unica sanzione per i normali casi di illegittimità del licenziamento, ma rileva il fatto che, oramai, diversamente dal passato, esiste per legge una sanzione specifica (la reintegrazione) per il datore di lavoro che licenzi il dipendente per il solo fatto che questi ha esercitato un proprio diritto in costanza di rapporto di lavoro. Il libero esercizio dei diritti già nel corso del rapporto di lavoro, quindi, non può avere una tutela più piena. La Cassazione, allora, non tiene conto della nuova e specifica fattispecie della nullità e limita la propria attenzione alla diversa fattispecie della illegittimità del licenziamento, dimenticando l’insegnamento della Corte Costituzionale